«Cerco di essere sempre me stesso, nel mondo in cui lavoro è difficile. Viviamo in un’anormalità oggettiva». Sono le parole di Pablo Daniel Osvaldo, l'eccentrico bomber della Roma e della Nazionale Italiana, che si racconta nel numero di GQ in edicola dal 29 novembre. Uno dei suoi artisti preferiti, Joaquín Sabina, è un rivoluzionario antifranchista. «Una persona che per sostenere un’idea ha messo a rischio la sua vita. Un poeta. Un grande narratore. Ti restituisce l’illusione che parli proprio di te». Altri modelli? «Frédéric Beigbeder. Un nichilista che crede nel dogma della velocità. Se non siamo certi di vedere il domani, dice, è meglio correre». Arrivò a Bergamo nel gennaio 2006. «Il 12, compivo 20 anni. Un freddo cane, la neve, l’albergo in mezzo al nulla, circondato dai silos di Zingonia. Arrivato in camera, ho iniziato a piangere. Fu dura. Non c’era un solo argentino, uno straccio di uruguaiano. Ero lontanissimo da casa, i compagni ridevano tra loro. Parlavano una lingua che non capivo. Diventai un po’ paranoico». Addirittura? «Pensavo ridessero di me.
Poi andò meglio e mi integrai». Le parole ingannano? «A volte non ne serve neanche una. Basta uno sguardo». Con Zeman comunicate a gesti? (Sorride, aspetta). «No, non solo almeno. Parliamo». Se non avesse giocato, cosa avrebbe fatto? «Oggi potrei dire il musicista rock o blues, o lo scrittore. Scrivere mi piace. Poesie e canzoni. Ieri rispondevo: “Voglio giocare a calcio”. Sguardi storti: “E se non arrivi?”. E io duro: “Non esiste. Io arrivo”». Il calcio è un disperato tentativo di recupero dell’infanzia. «Assolutamente. Quando gioco con i miei amici sembrano finali da Mundial. Erano ragazzi, adesso hanno la pancia, ma è la stessa cosa. Io gioco in porta. Se poi perdiamo, lascio i guanti e torno in attacco. Perdere non mi piace». L’affetto della gente? «Ogni tanto vorrei essere una persona qualsiasi. Andare in una piazza». È impossibile? «In Italia sì. A Barcellona lo facevo, andavo in Plaça de Catalunya con un mio amico, lui faceva ritratti ai passanti, io suonavo la chitarra. Non mi riconoscevano. Era bello. È affascinante la semplicità». Il calcio italiano logora? «In Italia non c’è mai una via di mezzo. Un giorno sei da scudetto e quello dopo da rogo. La mancanza di equilibrio mi fa infuriare, però non posso farci niente. E non ho voglia di fare niente». Il pubblico pagante non ha tutti i diritti? «Ma neanche per sogno. Io perdo una palla e tu mi vomiti addosso il tuo odio? Non è normale». Io pago. Tu hai sbagliato il gol. Ti fischio. «E quindi se il tifoso sbaglia al lavoro posso andare a picchiarlo, gettargli una banana o dirgli che sua madre è una poco di buono? Bella logica». Cosa pensa dei gay nel calcio? «Che la nostra società non è l’Alabama del ’50, ma sul tema siamo indietro. Un compagno gay in squadra? Non mi cambierebbe proprio niente. Sono persone libere, prima che calciatori». Lei ha detto che se scoprisse un compagno venduto non lo denuncerebbe. «Ciò che succede nello spogliatoio deve restare lì. Io non faccio il delatore, ma non mi volto. In silenzio, lo ammazzo di botte».
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Poi andò meglio e mi integrai». Le parole ingannano? «A volte non ne serve neanche una. Basta uno sguardo». Con Zeman comunicate a gesti? (Sorride, aspetta). «No, non solo almeno. Parliamo». Se non avesse giocato, cosa avrebbe fatto? «Oggi potrei dire il musicista rock o blues, o lo scrittore. Scrivere mi piace. Poesie e canzoni. Ieri rispondevo: “Voglio giocare a calcio”. Sguardi storti: “E se non arrivi?”. E io duro: “Non esiste. Io arrivo”». Il calcio è un disperato tentativo di recupero dell’infanzia. «Assolutamente. Quando gioco con i miei amici sembrano finali da Mundial. Erano ragazzi, adesso hanno la pancia, ma è la stessa cosa. Io gioco in porta. Se poi perdiamo, lascio i guanti e torno in attacco. Perdere non mi piace». L’affetto della gente? «Ogni tanto vorrei essere una persona qualsiasi. Andare in una piazza». È impossibile? «In Italia sì. A Barcellona lo facevo, andavo in Plaça de Catalunya con un mio amico, lui faceva ritratti ai passanti, io suonavo la chitarra. Non mi riconoscevano. Era bello. È affascinante la semplicità». Il calcio italiano logora? «In Italia non c’è mai una via di mezzo. Un giorno sei da scudetto e quello dopo da rogo. La mancanza di equilibrio mi fa infuriare, però non posso farci niente. E non ho voglia di fare niente». Il pubblico pagante non ha tutti i diritti? «Ma neanche per sogno. Io perdo una palla e tu mi vomiti addosso il tuo odio? Non è normale». Io pago. Tu hai sbagliato il gol. Ti fischio. «E quindi se il tifoso sbaglia al lavoro posso andare a picchiarlo, gettargli una banana o dirgli che sua madre è una poco di buono? Bella logica». Cosa pensa dei gay nel calcio? «Che la nostra società non è l’Alabama del ’50, ma sul tema siamo indietro. Un compagno gay in squadra? Non mi cambierebbe proprio niente. Sono persone libere, prima che calciatori». Lei ha detto che se scoprisse un compagno venduto non lo denuncerebbe. «Ciò che succede nello spogliatoio deve restare lì. Io non faccio il delatore, ma non mi volto. In silenzio, lo ammazzo di botte».
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