2 dicembre 2008

L'ultimo avversario: il libro dei campioni sportivi ma perdenti nella vita

Un libro scritto a quattro mani. Quattro mani molto simili, anzi praticamente uguali. Paolo e Giorgio Viberti, il primo giornalista di Tuttosport, il secondo della Stampa, sono infatti gemelli. Ed insieme si sono cimentati nella stesura di "L'ultimo avversario", con prefazione del presidente del Coni Gianni Petrucci: cinquanta storie di campioni dello sport che purtroppo non hanno saputo o potuto essere altrettanto grandi nella vita di tutti i giorni: da Fausto Coppi a Marco Pantani, da Garrincha a George Best, da Tiberio Mitri a Carlos Monzon, da Achille Varzi a Jarno Saarinen, da Jacques Anquetil a Charly Gaul, da Enrico Bovone a Kresimir Cosic, da Arthur Ashe a Nadia Comaneci. 
Il libro, pubblicato dalla Sei (Società Editrice Internazionale) di Torino, è in tutte le principali librerie italiane al prezzo 12 euro. «E' stata una scommessa e anche una bella avventura, senza però fini di lucro, almeno per quanto riguarda gli autori: gli eventuali guadagni miei e di mio fratello verranno devoluti a "Specchio dei Tempi", fondazione onlus de La Stampa». 
Perché Fausto Coppi, il Campionissimo, continuò ad arrancare in fondo al gruppo lungo il viale del tramonto? A quale geniale e definitivo “scacco matto” avrà pensato Bobby Fischer, il gigante degli scacchi ormai estraneo a se stesso e al mondo, nei suoi ultimi giorni islandesi? Perché Nadia Comaneci, la bambina prodigio della ginnastica rumena, “bruciò” la sua giovinezza tra ambigui rapporti politici e violenti rapporti sentimentali? Quale salita impossibile obbligò Marco Pantani, il “Pirata” del ciclismo, a confessare: «Nessuno mi ha capito. Nemmeno la bici»? Perché Agostino Di Bartolomei, campione di calcio, nel decennale della “sua” finale di Coppa dei Campioni decise di uccidersi per “uscire dal buco” in cui era finito? 
E poi, tutti gli altri. Vite pubbliche piene di successi sportivi ed esistenze private affollate dallo spirito della solitudine, della sconfitta umana. Un particolarissimo viaggio nella storia dello sport attraverso il racconto delle gesta di cinquanta campioni quasi invincibili nelle loro pratiche agonistiche ma poi sorpresi e a volte battuti dal destino nella sfida con la vita. Da Marco Pantani a Lou Gherig, da Fausto Coppi a George Best, da Josè Maria Jimenez ad Arthur Ashe, da Joe Louis a Eugenio Monti: una carrellata di emozioni e sentimenti tra l’apoteosi del personaggio e la crisi dell’uomo. Con l’impressione che all’improvviso qualcosa possa ancora succedere, ribaltando e sconvolgendo tutto quello che era stato acquisito sul campo. 
Ecco un breve estratto del libro di Paolo e Giorgio Viberti: 
GARRINCHA, CAMPIONE DI CALCIO (1933-1983) C'è un aforisma che descrive bene che cosa abbia rappresentato Garrincha per i suoi connazionali: «Se parli di Pelè a un vecchio brasiliano, questi si toglie il cappello per il senso di devota gratitudine. Se gli parli di Garrincha, si mette a piangere...».
Se infatti l'immenso Pelè era stato per molti il talento disciplinato dalla ragione, il campione e il professionista modello al limite della perfezione, Garrincha era rimasto invece l'eterno bambino dominato dall'istinto, incapace di calcoli o strategie, generoso, impulsivo, schietto. O'Rey era l'uomo che i brasiliani avrebbero voluto essere, Mané quello che erano. Per questo Garrincha fu persino più amato di Pelé, perché rappresentò la fantasia al potere, l'emozione che sgorga limpida, il reietto che riscatta tutto un popolo. Mané forse non sapeva nemmeno chi fossero John Kennedy o Franz Beckenbauer, né in quale parte del mondo stesse Parigi, eppure fu il primo calciatore della storia - precursore di una tendenza diventata poi consuetudine se non addirittura moda - che buttò fuori il pallone dal campo durante una partita perché un avversario era a terra dolorante per un infortunio. I suoi tifosi, per i quali era stato "Alegria do povo", allegria del popolo, "Manoel dos passarinhos", Manoel dei passerotti, o "a Estrela Solitária", la stella solitaria, dopo la sua morte scrissero sui muri dello stadio del Botafogo "Obrigado Garrincha por voce ter vivido", grazie Garrincha per essere vissuto. Fu il modo migliore per salutare l'ingenuo e tenero virtuoso del "futébol bailado".

fonte: LaStampa.it
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